sabato 31 maggio 2008

Ristorante Cracco – Milano

Approfittando di questo breve ponte, vi lascio questa lunga, ma davvero interessante recensione del ristorante Cracco.
Con Phil (autore della stessa) ci si chiedeva se fosse il caso di proporvela in due puntate, ma abbiamo poi deciso di non interrompere la "lettura ascetica" e di pubblicarla in versione integrale.
Prendetevi cinque minuti in più, perchè ritengo ne valga proprio la pena.

Carlo Cracco è uno chef geniale e coraggioso, oltre che una persona garbata e brillante. Questa è l’impressione che, a caldo, mi è venuto spontaneo manifestare dopo la mia prima e ottima esperienza presso il suo ristorante a Milano (a due passi da piazza del Duomo). Come molti sanno, Cracco è uno dei gioielli dell’alta cucina italiana e ha un importante percorso formativo alle proprie spalle: Gualtiero Marchesi prima («da lui ho imparato tutti i fondamentali»), La Meridiana di Garlenda, Alain Ducasse a Montecarlo, Sanderens a Parigi e l’Enoteca Pinchiorri a Firenze, per poi tornare da Marchesi all’Albereta. Esaurito il complesso e immaginiamo non facile percorso paideutico, il Nostro, dopo aver aperto un proprio ristorante, è finalmente approdato a Milano, presso la gloriosa famiglia Stoppani di Peck. Da questo connubio fortunato si è sviluppato Cracco-Peck (in realtà scritto al contrario, come vezzo), un brand che in pochi anni è assurto nell’Olimpo della ristorazione milanese e nazionale. Recentemente – ma anche questo è noto – Carlo Cracco ha rilevato il locale, che oggi si chiama infatti semplicemente “Cracco”, come è giusto che sia, dato che lui ne è l’anima e la ragione d’esistenza. Nel frattempo, a testimonianza della sua classe e dell’eccellenza del suo staff, Cracco ha conquistato due stelle Michelin (18.5/20 per l’Espresso; 92/100 per Gambero Rosso) e una serie di riconoscimenti internazionali, sul cui valore si può discutere all’infinito, ma che restano negli annali e fanno la differenza tra un number one e uno dei tanti. Insomma, siamo davanti a uno dei più grandi interpreti italiani della cucina contemporanea, ed è difficile negarlo. Ora, capiamoci: io né ho le competenze né la voglia di stare a dire in che posto della classifica nazionale e internazionale sia o possa essere Cracco, fatto sta che, da lui, ho vissuto un’esperienza gastronomica di altissimo livello, ed è questo che ritengo giusto raccontare.
Partiamo, dunque.

La location di Cracco è stata parecchio discussa da critici e bloggers, data la sua collocazione ipogea: due livelli sotto la strada che vengono raggiunti in ascensore. Io non trovo che questo noccia alla elegante ma minimale sala, poiché il locale non avrebbe ugualmente un grande affaccio e non è automatico che un ristorante debba avere luce naturale nelle proprie sale. Ben altro discorso sarebbe se desse sul Duomo, perché allora sarebbe stupido e vanamente provocatorio proporre ai clienti di pranzare in un sottomarino. Ma così non è e trovo giusto che a nessuno negli anni sia venuto in mente di strappare la sala agli abissi. Inoltre, uno splendido gioco di luci rende il locale molto caldo, tutt’altro che simile a una sala operatoria, rischio presente ma largamente scongiurato, checché ne pensi qualche recensore. Io, tuttavia, ho avuto la straordinaria opportunità di pranzare in una piccola, sobria ed elegante saletta posizionata dentro la cucina, la cui porta scorrevole di cristallo permette una visione teatrale del cuore pulsante del ristorante. Questo consente di avere un rapporto totalmente diverso con l’esperienza da Cracco, di osservarne le dinamiche, di coglierne le sfumature più intime e la cura maniacale del dettaglio (Cracco osserva i piatti, li corregge, passa lo straccio sul vassoio d’argento che si è inumidito, dimostrando un’umiltà non frequente a questi livelli). La cucina, più grande di un appartamento di medie dimensioni, è movimentata da un gruppo apparentemente affiatato di giovani chef. Questo è uno degli aspetti più belli di Cracco: l’età media dello staff assolutamente in controtendenza rispetto all’abitudine nazionale. Cracco, che è il più anziano della squadra, ha poco più di quarant’anni; Matteo Baronetto, suo alterego in cucina, e Luca Gardini, eccezionale somellier pluripremiato, ne hanno meno di trenta; Davide Osterero, caparbio e piacevole direttore di sala, intorno ai trentacinque. Questo non è un ristorante per vecchi, viene da dire parafrasando l’ormai celebre libro. Ed è un bene, a mio avviso: un ristorante moderno, minimale, avanguardistico, rivolto al futuro, ha il dovere di essere coerente anche nella scelta del personale. Se Cracco fosse un reparto geriatrico, perderebbe, non dico parte della sua grandezza, ma sicuramente parte della sua coerenza. E Cracco, timido e deciso nello stesso tempo, dà l’impressione di essere persona coerente. E coraggiosa, come detto, perché puntare sui giovani (in sala, non solo dietro le quinte) è anche una scelta di coraggio. Il servizio, assolutamente impeccabile, cucito addosso al cliente e alle sue esigenze e idiosincrasie, testimonia che anche i giovani possono raggiungere l’eccellenza. Se quest’asserzione vi suona lapalissiana, guardatevi intorno, orecchiate il sensus communis, e ripensateci.
Ho letto da qualche parte, non ricordo dove, che il servizio di Cracco è eccessivamente formale, ingessato, troppo servile. Sarà stata la mia collocazione privilegiata, ma non ho assolutamente avuto questa impressione. Anzi, mi è parso che la prestazione dello staff sia molto duttile, capace di adattarsi ai segnali della clientela: se date l’impressione di voler un servizio rigoroso, formale, asettico, lo avrete; analogamente, se volete scambiare qualche battuta, sul cibo come sui problemi quotidiani, lo potrete fare. Sta a voi decidere come essere serviti, e questo è segno di assoluta grandezza nella gestione del personale, ruolo in cui Davide Ostorero è maestro.

Non intendo soffermarmi sulla carta dei vini, assolutamente maestosa, perché capisco molto poco di enologia e non è il caso che mi lanci in analisi imbarazzanti della scelta delle etichette, di quanto sia ponderata la presenza delle annate, e di tutti questi tecnicismi che, pur fondamentali, non posseggo. Mi attengo al motto di Wittgenstein: «di ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Mi limito a dire che ho bevuto molto bene e che la scelta dei vini è stata disposta da Cracco: uno spumante Franciacorta (del 2000, ma non chiedetemi il produttore); un pinot francese 1999, di cui non ricordo nient’altro, se non che era un vino eccellente; infine un passito di Pantelleria (Donnafugata, questo lo ricordo). In totale, tra un rabbocco e l’altro, nove calici (ho bevuto solo io). Non aver avuto nemmeno il bisogno di demandare la scelta dei vini è stato positivo, perché mi ha sollevato dall’imbarazzo di spacciarmi per un raffinato cultore della materia.
A un prossimo giro da Cracco proverò un menu più azzardato e chiederò un accompagnamento al calice più estroso, ma questa volta, come detto, era saggio procedere così. Per gli amanti dei dettagli è bene precisare che l’acqua proposta è la San Pellegrino e che non c’è una lista delle acque tra cui scegliere.

Veniamo al cibo, suvvia. La Carta è affiancata da due proposte di menu degustazione, una più «tradizionale» (termine da utilizzare con estrema attenzione, in questi lidi), l’altra più «avanguardistica». Io e la persona che mi accompagnava abbiamo scelto la prima opzione, alla luce di una considerazione molto elementare: la prima volta è meglio aver un impatto meno choccante con la cucina di Cracco, riservandosi di provare in seguito proposte più arrischiate. Alla luce dei fatti, è stata una scelta sacrosanta. Cracco ha suggerito di fare un percorso leggermente più ampio, valutando in seguito la possibilità di affrontare il carrello dei formaggi (cosa che non abbiamo fatto), e noi abbiamo accettato di buon grado.
Da sgranocchiare con lo spumante ci sono stati offerti alcuni divertissement davvero sfiziosi: una confezione (sì, esattamente: confezione di plastica griffata Cracco) di verdure tagliate sottilissime ed essiccate al naturale, croccanti e prive di qualsivoglia condimento e un piatto di amuses bouche (simil-olive all’ascolana, donzelle all’acciuga, riso soffiato, sfoglie di patata essiccata in cinque verità: gialla, viola, al nero di seppia, alla paprika e al prezzemolo). Un inizio intelligente, raffinato, ironico (si mangia con le mani e le chips, inutile dirlo, non hanno niente della classica patata fritta). A disposizione anche varie tipologie di pane e degli ottimi grissini.
Successivamente due colpi di genio in rapida successione: Insalata russa caramellata e uno shot di Pesto leggero con succo di uvetta. Con calma, ora mi spiego, o almeno ci provo. L’insalata russa caramellata, che è un classico di Cracco, consiste in una piccola cialda croccante di fondant di zucchero, capperi essiccati e sale di Maldon, al cui interno viene inserita un’insalata russa arricchita con senape e tonno. Piatto difficilissimo da realizzare, in cui l’armonia dei sapori – così differenti e così marcati – è quasi impossibile da raggiungere. All’iniziale dolciastro della cialda, che si spezza al morso, segue un gioco di dolce-salato di incredibile bilanciamento, che termina nel sapore avvolgente dell’insalata russa. Grandissimo coup de théâtre.
Lo shot, invece, è una rilettura ironica di quei cocktail a base di tequila che vengono consumati “alla goccia”: sul fondo un succo di uvetta tiepido, su cui viene versato del pesto tendente al liquido, in modo che lo si possa trangugiare one shot. In bocca si sente inizialmente il classico sapore oleoso del pesto, che inizia a mescolarsi con il provocatorio e contrastante sapore dell’uvetta, con un risultato davvero sorprendente. Cracco, che ha accompagnato personalmente quasi tutte le portate, spiegandole al dettaglio, ci ha permesso di meglio cogliere le sfumature delle sue innovazioni e quindi di apprezzare la sua cucina.

A quel punto abbiamo potuto confrontarci con un altro classico della casa: il Tuorlo marinato, questa volta declinato con una purea di piselli, piselli interi, fave e bruscandoli. Altro grande piatto: il tuorlo, dopo una lunga marinatura in una pasta di sale e zucchero, raggiunge una consistenza apparentemente gelatinosa (ma è un aggettivo che fa torto al piatto), che sprigiona il suo umore (che si mantiene liquido) quando viene rotto con il cucchiaio. Ancora una volta l’equilibrio dei sapori è notevolissimo, così come la capacità di Cracco di rendere inusuale un ingrediente così scontato come l’uovo.
Il successivo antipasto è stato a base di pesce: Alici marinate con pomodoro e ostia. Quest’ultima, soffiata sia al nero di seppia che al prezzemolo, viene adagiata sul piatto come fosse una sorta di scoglio, su cui vengono disposte delle alici perfettamente marinate infilzate da un amo, che è di zucchero e quindi si può mangiare. Piatto dai sapori decisi: le alici, infatti, conservano il loro vigore, mediato dall’ostia e dai veli di pomodoro confit che l’accompagnano. Ottimo il risultato finale di questo piatto vagamente nordico.
La portata successiva – l’ennesimo classico cracchiano – si situa di diritto ai vertici della giornata (e non solo): Musetto di maiale fondente con scampi e pomodori verdi. Siamo da Cracco, ed è tutto molto complesso, quasi mai immediato. Questa proposta lo è particolarmente, a mio modo di vedere, per l’accostamento osé di musetto di maiale e scampi. Provo a spiegare il piatto: il musetto viene fatto cuocere a bassa temperatura molto a lungo, fino a portarlo a una consistenza “burrosa”; a quel punto viene disposto in quadrati e ricoperto del fondo di cottura del maiale, poi fatto “caramellare” (termine improprio, temo) nella salamandra, che è una sorta di forno aperto. Sul quadrato di musetto è disposto uno scampo scottato in acqua e accompagnato da una dadolata di pomodoro verde. La gamma di sapori sprigionata dal piatto è strepitosa: il grasso pungente del maiale, che inevitabilmente si impone, cozza con la delicatezza dello scampo e l’asprigno del pomodoro, che svolge una funzione sgrassante. Anche in questo caso è l’equilibrio dei sapori a conferire al piatto un’eccellenza difficilmente raggiungibile. Mai musetto di maiale fu così buono!
L’omaggio a Milano di Cracco, iniziato con il musetto, prosegue con il più grande classico della nostra cucina: Il risotto allo zafferano. Come noto, la ricetta originale prevede l’utilizzo del midollo, che Cracco reinterpreta come boccone di midollo “alla piastra” che viene adagiato al centro del risotto, in modo che uno possa mangiarlo o metterlo da parte (parola di Cracco, non mia). Un piatto tecnicamente perfetto, che mi porta a considerarlo il miglior risotto allo zafferano mai mangiato. La mantecatura è eseguita magistralmente: nessun sapore predomina sugli altri, zafferano compreso, e la cremosità del risotto viene forse gustata al meglio se mangiato con il cucchiaio. A chi rimprovera Cracco di essere sempre troppo cerebrale e innovativo e non di rispettare la tradizione, consiglio vivamente di fare il bis di questo risotto, omaggio splendido a una splendida tradizione. Tradizione che trova conferma nel successivo piatto che Cracco ci serve, con la consueta spiegazione: Vitello impanato alla milanese, petali di pomodoro e zucchine. Ai filologi non sfuggirà la dicitura «vitello impanato alla milanese»: non sarebbe più diretto, chiaro e papale parlare di «costoletta»? No, perché a questo punto del pranzo una classica costoletta alla milanese sarebbe più pericolosa delle roulette russa, dopo il pieno di grassi fatto con il musetto e il risotto. Cracco, ricordandosi del maestro Marchesi, propone così due cubi di vitello impanato e insaporito dal sale di Maldon, che si lasciano mangiare più che volentieri e che non vengono avvertiti come un’esagerazione. La carne è cotta il giusto, in modo da lasciarla rosa all’interno, ed è assolutamente tenera. A me è molto piaciuta, ma gli amanti dell’«orecchio d’elefante», deturpazione modaiola della costoletta, non potranno certo apprezzarla, perché la rielaborazione cracchiana è alta tre centimetri e non è friabile come un biscotto.
Sarebbe così arrivato il momento dei formaggi (solo ed esclusivamente italiani), ma abbiamo declinato, passando al pre-dessert. Un sorbetto di fragola e grani di pistacchio, con aspic di fragoline di bosco e menta. Semplicissimo, serviva solo a «pulire la bocca», se mi si passa l’espressione. Il suo scopo l’ottiene, ma non è certo un dolce di livello. Già, i dolci. Ne abbiamo provati due: il primo, Nuvola di mascarpone al limone, menta e rum, molto divertente dal punto di vista concettuale, con un ottimo equilibrio dei sapori e dei profumi, ma nel complesso un buon dolce, senza eccellenza; il secondo, Mango caramellato e crema al pepe di Sechuan, che consiste in una frolla molto friabile su cui viene adagiato del mango caramellato e disidratato, accompagnato a una mousse delicatissima al pepe di Sechuan, che, per chi non lo conosca, ha un sapore tendente alla menta: il risultato è ancora una volta buono, ed è apprezzabile la freschezza complessiva del piatto, ma di nuovo non credo si possa definire un dolce eccellente. Dell’articolato menu testato oggi i dolci sono stati, pur superando decisamente la sufficienza, l’aspetto meno entusiasmante. Forse siamo tutti abituati a dolci molto più immediati e goderecci, dunque l’impalpabilità e la stravaganza delle proposte cracchiane (un dolce è a base di caviale, cioccolato e chinotto) stuzzicano più la testa delle papille gustative.
Divertenti anche i post-dessert e la piccola pasticceria: un bicchierino di pistacchio e ananas, uno di frutto della passione e cioccolato, anacardi al cacao, praline al pistacchio, baci di dama mignon, minuscoli cestini di frolla alla confettura e un cestino di frutta disidratata – richiamo circolare dell’incipit – hanno accompagnato un ottimo caffè. Ma prima del congedo, la chicca finale, l’ultimo gioco cracchiano: le Lenti a contatto al caffè. Si tratta di un mero esercizio di straniamento, per cui il cliente si vede servire un oggetto, un contenitore da oculistica, che nulla c’entra con il contesto in cui si trova e per un attimo si interroga su come utilizzarlo. Il primo gesto, quello più spontaneo, è di aprirlo. Compaiono allora due oggetti identici a delle lenti a contatto, tanto per forma che per consistenza (solo un po’ più gelatinosi, ovviamente), da estrarre con il dito e portare alla bocca. Il sapore è di caffè, ma non è quello che conta, perché una volta messe in bocca, il gioco è finito.

Torniamo al coraggio di Cracco. Milano è una città che ha dimenticato parte della propria tradizione gastronomica: il risotto viene sempre più sgrassato, il musetto di maiale è scomparso, il midollo è stato censurato dall’isteria post mucca pazza, la costoletta è stata spianata fino a ottenerne una cialda, la barbajada nessuno sa più cosa sia. Molti, ormai, si sono abituati così, anche per la necessità di una dieta light in una città dinamica e produttiva. Cracco è ancora una volta in controtendenza: i suoi piatti non deflettono mai dall’ispirazione tradizionale, non rinunciano a un cucchiaio di burro o a un sapore forte, come quello del musetto, che se proprio dev’essere sgrassato, lo si faccia con uno scampo e con i pomodori verdi! Ma Cracco ha coraggio anche perché propone un secondo menu ai limiti dell’incomprensibile, se non ci si diletta molto tra ricette avanguardistiche, spezierie, sapori esotici, arditezze concettuali (come lo zucchero filato alle alghe o la marinara in foglie). E lo propone – come candidamente e onestamente ammette – sapendo benissimo che a molti risulterà ostico, magari troppo, perché, dice, «l’importante è che sentano che è buono, la comprensione può arrivare anche dopo, a freddo». Cracco è coraggioso anche perché ha rilevato un ristorante che, per girare a quei livelli, in una città cara ed esigente come Milano, richiede circa trenta uomini di personale pronti a stare nel locale fino a quattordici ore al giorno, se necessario, ma che reclamano tutti uno stipendio mensile. Questo significa che Cracco non è solo uno chef di livello elevatissimo, ma che è anche a tutti gli effetti un piccolo imprenditore, che deve gestire le risorse umane al meglio, affinché il suo eclettismo non venga frustrato da un personale inadeguato. Questo accomuna forse tutti i grandi ristoratori italiani, ma a Milano i costi sono decisamente maggiori che in provincia o al Sud. La sensazione è che Cracco, pur essendo tutt’altro che economico, non possa diventare milionario con il solo ristorante. Durante il mio pranzo ho avuto modo di contare circa venti persone, tra cucina e sala; gli avventori, noi compresi, erano invece non più di una dozzina. Se a questo aggiungiamo il costo del locale, la splendida posateria, i cristalli, la sterminata cantina, gli strumenti necessari per realizzare quel tipo di cucina e lo studio che si nasconde dietro ogni realizzazione, si può affermare, anche in un periodo di apparente crisi economica, che Cracco meriti ampiamente i centosessanta euro a persona che gli abbiamo lasciato.
In cambio abbiamo avuto infatti qualche piatto memorabile (insalata russa caramellata, tuorlo marinato, musetto, risotto, cotoletta in cubi), alcuni divertimenti sfiziosi (lo shot di pesto, le variazioni sulla frutta e verdura disidratate, le lenti a contatto) e un servizio impeccabile, molto attento ma anche decisamente umano, per nulla artefatto, ma sempre rispettoso del cliente. Solo i dolci, se proprio vogliamo trovare un difetto, si sono collocati al di sotto dell’eccellenza. Il resto ha viaggiato su vette altissime, senza tentennamenti e senza esitazioni, come solo alla mano di un grande può riuscire.


Ristorante Cracco-Milano
Via Victor Hugo, 4
Milano
tel. 02.87.67.74

venerdì 30 maggio 2008

Peperoni ripieni al basilico con riso integrale


Questa è sicuramente una delle mie ricette preferite.
Mi ci sono piacevolmente imbattuta l'anno scorso quando, in uno dei miei toccafuga a Mantova, ho avuto il piacere di ricevere un invito a pranzo da mia zia Adriana.
Era luglio, forse agosto e a Mantova c'era un caldo da morire. Lei mi ha presentato questi peperoni (se non sbaglio, a sua volta imparati dalla sua mamma) che mi hanno completamente stregata, sprigionando un sapore e una freschezza davvero unici.
Ora, devo dire che, in generale, nella mia famiglia si è sempre mangiato piuttosto bene (nonne, zie, tutte molto brave e con una forte tradizione alle spalle), ma lei ha sempre avuto una marcia in più: una cura e un'attenzione particolari per il cibo l'hanno sempre contraddistinta.
Ma torniamo a noi...ovviamente, innamoratami dei peperoni, le ho subito chiesto la ricetta. Lei me l'ha spiegata a voce, io ho cercato di imprimere le sue parole nella mia testolina bacata e, tornata a casa, mi sono subito lanciata nell'esperimento.
Ecco. Secondo voi, c'è vagamente la speranza che i miei peperoni somigliassero ai suoi? Ovviamente, neanche per sogno.
Insomma, riprova di qua, aggiusta di là, metti l'uovo, togli l'uovo, aggiungi il parmigiano e così via, sono arrivata a questa conclusione...
Spero piaceranno a voi quanto sono piaciuti a me.


Peperoni ripieni al basilico con riso integrale

Per 2 persone:
180g riso integrale (o anche normale)

2 peperoni gialli(circa 500g)
250g macinato di carne
150g ricotta
2 cucchiai di parmigiano grattugiato
una valanga di basilico
sale e pepe

4-5 cucchiai di passata di pomodoro
basilico
olio evo

Bollire il riso integrale (a mio avviso più comodo, da saltare in padella all'ultimo minuto) e fermare la cottura al dente sotto l'acqua fredda.
Tenerlo da parte.
Tagliare la calotta superiore dei peperoni, pulirli e dargli una sbollentata rapida in acqua bollente salata. Scolarli e asciugarli.
Preparare il ripieno mescolando insieme la carne, la ricotta, il parmigiano, il basilico spezzettato, il sale e il pepe.
Riempire i peperoni con il ripieno.
In una padella, mettere a scaldare la passata di pomodoro con un cucchiaio di olio e il basilico e adagiarvi dentro i peperoni, coperti con la propria calotta.
Cuocere a fuoco basso con il coperchio, versando di tanto in tanto la passata sui peperoni.
In ultimo, spadellare il riso o con un filo d'olio o con la passata di pomodoro usata per la cottura dei peperoni e servire.

Questo piatto ha il vantaggio di non aver bisogno del forno e di potere essere preparato con grande anticipo (anzi, i peperoni, se preparati il giorno prima, guadagnano in gusto).

giovedì 29 maggio 2008

Club sale e pepe: Medaglioni di lonza con corona di mirto


Domanda numero uno: ma come cavolo si fa a fotografare la carne?
Ok, ok, non ho scusanti. Sta foto fa veramente schifo.
Ma ho deciso che ci passerete sopra, perchè, al contrario, la ricetta è proprio buona.
L'ho tratta dal numero di aprile 2008 di Sale e pepe e finisce direttamente nel club.


Medaglioni di lonza con corona di mirto

e purè di mele al curry

per 4 persone:

4 medaglioni di lonza (io ho usato il filetto)
mezza cipolla
una grossa mela
mezzo cucchiaio di succo di limone
un cucchiaino di curry
5 cucchiai di yogurt bianco
qualche rametto di mirto
burro
sale (di Maldon) e pepe
spago da cucina (io ho usato questi)

Sbucciate la mela, tagliatela a dadini e cuocetela in una casseruola col succo di limone finchè sarà diventata molto morbida. Frullatela (io non l'ho fatto).
Tritate la cipolla e fatela appassire con una noce di burro.
Legate i medaglioni di lonza, inserendo tra la carne e lo spago dei rametti di mirto. Rosolate la carne nel soffritto e cuocetela a fuoco medio con il coperchio per 10-15 minuti, a seconda dello spessore. Salate e pepate.
Togliete la carne dalla padella e tenetela al caldo tra due piatti. Aggiungete il curry al fondo di cottura e fatelo scaldare. Aggiungete anche il purè di mela e lo yogurt e fate sobbollire.
Regolate di sale e servite coi medaglioni.


Dimenticavo: da oggi sino al 2 giugno, siete pregati di passare da Laura a lasciare il vostro voto! C'è una garona in ballo!

mercoledì 28 maggio 2008

Crostata salata con zucchine, menta e limone


Ad ognuno il suo.
Chi è l'addetta alla cucina?
Io.
Alla spesa?
Io.
A lavare i piatti?
Lui.
(mi sembra una giusta divisione, no?)
E allora, perchè ogni volta che andiamo al supermercato, davanti alla cassa saltano fuori scatolette di cibo non ben identificate, ma perfettamente infrattate fino a quel momento?
Perché spuntano olive, pistacchi, lupini e soprattutto...formaggini della peggio qualità?
Questo bell'incipit per dire che mi ha girovagato per il frigo questa simil caciottina insipida e plasticosa per giorni e giorni, finchè ieri, stanca ed impietosita, non ho deciso di dare un senso alla sua insignificante esistenza, sacrificandola in questa torta.
Voi siete pregati di usare formaggio migliore (per le spese a venire, mi sono dotata di manette!).


Crostata salata con zucchine, menta e limone

Per la pasta:
150g farina 00
50g vino bianco
40g olio evo
un pizzico di sale

Per il ripieno:
2 zucchine grandi
100g formaggio meno orrendo del mio
2 uova
la scorza di un limone (o anche 2, se piace)
un goccio di latte (mezzo bicchiere circa)
5 o 6 foglie di menta + quelle per la guarnizione
sale e pepe

Accendere il forno a 180 gradi.
Preparare la pasta amalgamando bene insieme gli ingredienti.
Lasciarla riposare e dedicarsi al ripieno.
Grattugiare le zucchine e il formaggio con una grattugia a fori larghi, unirvi le uova, la scorza di limone, le foglie di menta spezzettate e un po' di latte per rendere il tutto più liquido e amalgamato. Salare e pepare.
Riprendere la pasta, stenderla col mattarello e adagiarla su uno stampo imburrato e infarinato.
Riempire il guscio di pasta con il ripieno, guarnire con altre foglie di menta e infornare a 180 gradi fino a doratura (circa 20 minuti).

martedì 27 maggio 2008

Cake al miele, limone e timo limone

Un altra ricetta dal mio libro preferito (è proprio una figata sto volumetto, non ho mai sfruttato un ricettario così tanto! Grande acquisto!).
Trattasi di cake svuota dispensa, teso ad esaurire le scorte di miele (il massimo sarebbe stato usare un miele di timo, così si raggiungeva la quadratura del cerchio: miele al timo, limone e timo limone...praticamente uno scioglilingua!).
Buono, profumato (io adoro il limone e ho approfittato dei miei buonissimi limoni canditi) e con una dose di burro piuttosto ridotta (e un po' si sente: tende a seccarsi, anche per "colpa" del miele, abbastanza rapidamente).
Non siate parchi col timo!


Cake al miele, limone e timo limone

25og farina 00
3 uova
50g zucchero
120g miele (per me di acacia)
60g burro fuso
il succo di 2 limoni
la scorza di un limone candito tagliata a cubetti (o grattugiata di un limone normale)
una manciata di timo limone fresco (ma la ricetta prevedeva quello normale)
1/2 bustina di lievito per dolci
1/2 cucchiaino di bicarbonato
1 pizzico di sale

Scaldate il forno a 180 gradi.
In una ciotola capiente, sbattete le uova con lo zucchero e il miele. Quando il composto avrà raddoppiato il volume e sarà diventato spumoso, aggiungete poco a poco la farina setacciata col lievito e il bicarbonato, il burro fuso, la buccia e il succo di limone e, infine il timo. Amalgamate bene il tutto e versate in uno stampo imburrato e infarinato.
Cuocete a 180 gradi per 40-50 minuti.
Lasciate raffreddare il cake prima di sformarlo.

sabato 24 maggio 2008

Crema di piselli e menta

Come potete immaginare dal tenore delle ricette, questa settimana ho cercato in ogni modo di fare la "danza del sole": piatti freschi, colorati, estivi, nella speranza che ci si sblocchi da questo grigiume.
Ieri, quando finalmente sono usciti i primi raggi di sole, mi hanno fatto un'impressione (visiva) pazzesca. Mi davano quasi fastidio agli occhi, come se fosse da mesi che non li vedessi e il mio corpo non ne fosse più abituato. Bello.
Ovviamente è durato poco...
Così, ieri cenetta estiva, aperta da questa cremina di piselli e menta che mi è piaciuta da morire.
L'abbiamo mangiata fredda, nella scomodità di questo bicchiere (che farà anche figo, ma è veramente scomodo!), col terrore che si crepasse a ogni scucchiaiata un tantino troppo violenta...

Crema di piselli e menta

per 2 persone (mangione)

400g piselli freschi (al netto degli scarti)
1 patata medio-grande
5-6 foglie di menta (come vedete, le mie sono grandi)
olio
brodo vegetale
sale e pepe

Passare i piselli e la patata finemente tagliata in una pentola con due cucchiai d'olio. Salare e pepare e ricoprire con del brodo vegetale.
Quando il tutto sarà cotto (possibilmente al dente), mettere da parte 2 o 3 cucchiai di piselli e frullare il resto (eventualmente regolandosi con i liquidi) con le foglie di menta.
Passare il composto frullato al setaccio, impiattare e aggiungere i piselli interi tenuti da parte.
Servire.

venerdì 23 maggio 2008

Risottino con rosmarino e i suoi fiori


Come potete immaginare dalla luce quasi accecante emessa dalla foto, questa non l'ho scattata nè in questi giorni, nè a Milano.
Questa semplice ma gustosa preparazione risale infatti alla mia gitarella fuori porta in barca durante il ponte del primo maggio.
Il marina al quale eravamo appoggiati pullulava di cespugli di rosmarino in fiore così, senza farmi pregare due volte, mi sono armata di sacchettino e sono andata a fare razzia.
Inutile dirvi che il sapore era di una delicatezza unica...


Risottino con rosmarino e i suoi fiori

Per 2 persone:

180g riso carnaroli
un cucchiaio di foglie di rosmarino tagliuzzate
una manciata di fiori di rosmarino
4 cucchiai di parmigiano reggiano grattugiato
2 cucchiai di olio evo
una noce di burro
vino bianco
sale e pepe
brodo vegetale

Scaldare l'olio con le foglie di rosmarino, farle soffriggere per qualche secondo, poi versarvi il riso, farlo tostare, salare e pepare e sfumare con un po' di vino bianco.
Una volta evaporato il vino, portare a cottura con il brodo vegetale. Spegnere il fuoco, aggiungere il burro e il parmigiano. Lasciar riposare per qualche minuto e poi servire con una spolverata di fiori di rosmarino.

P.S.: Vi invito a prendere visione della più bella foto pubblicata oggi tra i blogs di cucina. La trovate qui.

giovedì 22 maggio 2008

Crème brûlée di pomodoro


Dunque, diciamo che non si può avere tutto dalla vita, ma un cannello per la crème brûlée sì, quello lo si deve avere! Altrimenti il rischio è quello che vedete sopra: tante buone intenzioni, ma risultati zero.
La classica crosticina prevista in questa preparazione ha deciso di farsi attendere...le ho provate tutte: grill del forno, accendino, ma niente! Non ne ha voluto sapere.
In compenso, crosticina a parte, trovo che questa cremina sia davvero un'ottima preparazione, soprattutto in vista della bella stagione. Da servire ad un buffet o come "apripista" per una cena d'estate.
L'acidino del pomodoro arricchito dal basilico e qualche spezia, unito alla dolcezza dello zucchero (un po' come i classici pomodorini confit) risulta davvero fresco e gradevole.
La fonte è, ancora una volta, lo speciale sulle verdure de La Cucina italiana, corredato da opportune mie modifiche.
Anche in questo caso, l'apporto calorico è minimo (sto diventando brava, eh?).


Crème brûlée di pomodoro

per 4 persone:

1kg pomodori
8g colla di pesce in fogli
un'arancia (o polvere d'arancia)
agar agar (che non avevo, quindi ho raddoppiato la colla di pesce)
curry
cannella in polvere
basilico
zucchero grezzo
olio extravergine d'oliva
sale (ovviamente alla vaniglia!) e pepe

Mondate i pomodori (spellateli e togliete i semi dopo averli immersi per qualche secondo in acqua bollente) e frullateli con qualche foglia di basilico. Raccogliete in un tegame g 600 di passata così ottenuta, 4 cucchiai di succo di arancia, 2 cucchiai di olio, sale, pepe, un pizzico di cannella, un po' di curry, un cucchiaino di agar agar, trasferite sul fuoco e lasciate sobbollire il tutto per 2'. Unite quindi la colla di pesce, ammollata e strizzata e, tenendo la fiamma bassissima, mescolate con cura finché non sarà completamente sciolta. Suddividete il composto in quattro stampini e riponeteli in frigorifero fino a quando la crema non si sarà rassodata. Trascorso questo tempo, cospargetene la superficie con zucchero grezzo e caramellatela posandovi sopra per qualche istante l'apposito ferro con il manico, che avrete arroventato sulla fiamma. Servite la crème brûlée con foglioline di basilico.


P.S.: Sere!!! Questo potrebbe fare al caso tuo...

mercoledì 21 maggio 2008

Ceci n’est pas une pipe...

...l'è un grissìn!
Vabbè, tolta la mia stupidità, questa ricetta l'avevo in cantiere da una vita.
Innanzitutto perché in questo tipo di preparazione non mi ero ancora cimentata. In secondo luogo perchè la firma di questa ricetta è di Nicola Cavallaro.
La fonte è, ancora una volta, il cavoletto, ma li ho visti rifare anche qui.
Dunque, a parte l'estetica (che lascia decisamente a desiderare), in quanto a gusto e consistenza, li ho trovati davvero eccellenti. E, altra nota positiva, si conservano bene per più giorni, se opportunamente coperti.
Bisogna, però, che prima o poi vada a mangiare gli originali Al San Cristoforo(!), altrimenti non posso fare gli adeguati paragoni. Chi vuole intendere, intenda (sto emettendo segnali luminosi)...


Grissini con semi di papavero

400 g di farina 00
100 g di farina 0 o di manitoba
100 g di olio extravergine d'oliva
un panettino di lievito madre (io ne ho usati 150g) o, in mancanza, 20 g di lievito di birra
8 g di sale
acqua q.b.
semi di papavero blu

Sciogliamo il lievito in un bicchierino di acqua appena tiepida ed impastiamo con le farine, l'olio ed il sale, aggiungiamo eventualmente ancora acqua finchè il composto si staccherà dalle mani. Formiamo una palla e lasciamola riposare in una ciotola coperta da pellicola per qualche ora, finchè sarà raddoppiata (se usiamo il lievito di birra ci vorrà molto meno).
Trascorso il tempo necessario stendiamo la pasta con l'aiuto di un matterello in una striscia e ricaviamone dei bastoncini di 12-15 cm di lunghezza e 2 cm c.a. di larghezza e spessore. Rotoliamo sul piano di lavoro ciascun bastoncino in modo da allungarlo e fargli prendere la forma cilindrica classica del grissino. Pennelliamoli con acqua e rotoliamoli nei semi di papavero. Disponiamoli in teglia, lasciamoli riposare ancora mezz'ora e poi cuociamoli in forno molto caldo fino a doratura.
Al posto del papavero possiamo usare sesamo oppure rotolare i grissini nella semola di grano duro o cospargerli di fior di sale.

AGGIORNAMENTO: La prossima volta vanno fatti più sottili e con l'eventuale aiuto di una micropunta di LdB.

martedì 20 maggio 2008

Mattonella verde

Questo week end mi sono fatta prendere da un raptus cucinifero...il tempo non invogliava lunghe passeggiate e avevo una serie di ricette addocchiate in arretrato che dovevo assolutamente fare(prima che scomparissero dai banchi dei fruttivendoli gli ingredienti di cui avevo bisogno).
Questa è una delle prime: una terrina di sole verdure verdi (asparagi, fave, zucchine), piuttosto lunga da fare, ma di grande soddisfazione visiva e gustativa.
E' una ricetta de La cucina italiana, recentemente ripubblicata sullo "speciale verdure" (ora in edicola) che ho, ovviamente, rivisitato a modo mio.
L'unica modifica che non ho fatto, ma che prossimamente farò, è quella di sostituire il pane ammollato nel latte con della ricotta. E' un "addensante" che mi piace mooolto di più.
Ah, ultima nota positiva: pochissime calorie!


Mattonella verde

700g asparagi mondati
500g zucchine
200g fave sgranate e pelate
7 fette di pancarré senza crosta
2 uova
latte
Grana Padano grattugiato (2 cucchiai)
olio extravergine
sale e pepe

Riducete le zucchine a nastri, ungeteli con olio e arrostiteli in una padella antiaderente. Foderate una terrina o stampo da plumcake (cm 25x8x6) con carta da forno, quindi con le zucchine, disponendo i nastri nel senso della larghezza e lasciandoli debordare. Lessate gli asparagi e riducete la parte finale dei gambi in piccola dadolata. Passate al mixer le fave con 4 fette di pancarré ammollate nel latte, le uova, sale, pepe e due cucchiai di grana. Distribuite sul fondo della terrina gli asparagi interi ponendoli, nel senso della lunghezza, punta contro punta; copriteli con un po' di dadolata. quindi con la crema di fave e procedete in questo ordine fino alla fine. Rimboccate le zucchine debordanti e mettete il coperchio alla terrina (o un foglio di alluminio sullo stampo da plumcake). Ponete il recipiente in una teglia, immerso per metà nell'acqua e infornate il tutto a 200 °C per 35'. Sfornate la terrina, lasciatela raffreddare, infine sformatela e servitela a fette con l'insalatina.


sabato 17 maggio 2008

Focaccia cotta in salamoia


Perdonate il mio scarso pudore, ma questa ricetta di Gennarino Esposito proprio ve la devo dare.
La prova costume può attendere...
L'ho pescata dal libro Sale. Un pizzico non vale l'altro edito da Gambero Rosso e non ho saputo resistere.
Ma vengo subito al dunque e vi riporto la ricetta (piuttosto striminzita) accompagnata dai miei commenti tra parentesi quadre.
E' una cosa fantastica...


Focaccia cotta in salamoia

per 6 persone [secondo me, anche per 8]

per la focaccia
1kg farina 00

300g lievito madre (chiedetelo al vostro panettiere!)
mezzo litro di acqua oligominerale
100g di strutto [per me, burro]
50g olio evo
15g sale integrale marino grosso [per me, sale grigio di Guerande]

per la salamoia
300g acqua oligominerale
150g olio evo
50g sale marino integrale grosso

Sciogliere l'acqua e il lievito madre per circa 5 minuti. Aggiungere la farina, l'olio e lo strutto sciolto a temperatura ambiente. Impastare con un robot da cucina dotato di spirale, a velocità 2 per circa 5 minuti. Aggiungere il sale solo all'ultimo. Coprire con un canovaccio e lasciare riposare per un'ora. Stendere l'impasto omogeneamente in una teglia media da forno. Ricoprire la focaccia con la salamoia. Far lievitare per 5 ore. Infornare per 20/25 minuti a 220 gradi. Per ottenere la salamoia miscelare l'acqua con l'olio e il sale.
[Per quanto riguarda la cottura, è importante riuscire a far "respirare" la parte sotto che, data la salamoia, rimarrebbe troppo umida. Quindi consiglio o di girare sottosopra la focaccia a metà cottura oppure, verso la fine, di toglierla dalla teglia e terminare la cottura sulla griglia]

Credo che, con l'inserimento di pomodorini nell'impasto, verrebbe una meraviglia. Io ne sono rimasta davvero entusiasta. E' molto particolare. Provatela perchè ne vale davvero la pena.

AGGIORNAMENTO: L'ho provata con grande successo anche in versione pizza.
Ho impastato, fatto riposare, steso, aggiunto la salamoia e aspettato 4 ore. Poi ho scolato dalla salamoia (in buona parte già assorbita dall'impasto), cotto in bianco per i primi cinque minuti, poi ho aggiunto qualche cucchiaio di passata di pomodoro scondita e infornato per altri 10 minuti, poi ancora ho aggiunto la mozzarella, i pomodorini tagliati a metà e ho rinfornato fino al primo scioglimento del formaggio. Poi ho tolto il tutto dalla teglia e appoggiato sulla griglia ad una bassa altezza del forno e cotto ancora qualche minuto, così da conferirle croccantezza nella parte inferiore.

venerdì 16 maggio 2008

Crostatine con fichi al tè e nocciole


'Na roba dietetica, insomma!
Però non ho saputo resistere...innanzitutto perchè non mangio una crostata da una vita, poi perchè dovevo in qualche modo liberarmi dei mille vasetti di marmellata che mi inondano il frigo e infine per testare i miei stampini nuovi (per i quali ho praticamente fatto un mutuo!).
Direi che sono giustificata, no?
Dunque, stavolta ho voluto provare una frolla nuova, apparentemente più "leggera" rispetto alle solite e che ho arricchito di nocciole in polvere.
Molto molto buona. E particolarmente adatta per questo tipo di preparazione, a mio avviso.
Per quanto riguarda la marmellata, invece, mi sono limitata ad aggiungere un cucchiaino di tè (earl grey) polverizzato alla confettura di fichi che avevo a disposizione.
L'idea dell'accostamento, ovviamente, non è mia, ma viene da una buonissima marmellata che ho assaggiato dalla mamma, regalatale da una sua cara amica (ciao Paola!)...


Crostatine con fichi al tè e nocciole

per la frolla alle nocciole:
170g farina 00
30g polvere di nocciola
75g zucchero a velo o Zefiro
75g burro
2 tuorli
un pizzico di sale alla vaniglia (o di sale normale+un po' di vaniglia)
2 o 3 cucchiai di acqua fredda

confettura di fichi al tè
un po' di albume per spennellare

burro e farina per gli stampi

nocciole intere per guarnire

Formare la frolla come al solito, aggiungendo tutti gli ingredienti, tenendo l'acqua per ultimo (regolarsi sulla quantità). Farla riposare una notte intera.
Stenderla all'altezza voluta, foderare gli stampini imburrati e infarinati e spennellare la superficie della pasta con un velo di albume (serve per "isolare" la frolla dalla marmellata, evitando così eccessivi passaggi di umidità). Riempire con la confettura e infornare a 180-190 gradi sulla griglia del forno (no leccarda) fino a doratura (circa 20 minuti).
Guarnire con nocciole intere.

Con questa ricetta partecipo al meme-game di Laura.

giovedì 15 maggio 2008

Frittatine di barba mentolata

Quando so che c'è un prodotto che sta per finire, poichè è giunto a fine stagione, ne compro una valanga. Voglio fare il pieno sino all'anno seguente. Spesso, però, come in questo caso, finisco per nausearmi. Ieri sera c'era barba di frate in ogni portata. Una cena terribile. Però andava mangiata e quindi tant'è.
A prescindere da questi miei eccessi, mi piace tantissimo seguire la stagionalità dei prodotti. Ad esempio, è da settembre/ottobre che non mangio una zucchina o una melanzana o peperone che sia. E non vi dico la voglia che ho adesso.


Cioè, non vedo l'ora di mangiarmi una melanzana grigliata, vi rendete conto?

Io trovo che sia una figata. Un po' perchè mi piace regolare il mio orologio biologico a quello della terra, un po' perchè è bello "aver voglia di qualcosa", desiderarla, sapendo che non è sempre tutto lì, a disposizione.
Al di là dell'aspetto economico/ambientale (per cui vi rimando a Salsa di sapa) o anche gustativo (perchè i frutti di stagione sono decisamente più saporiti e non sanno di plastica), la mia è proprio una gioia personale. E anche un percorso di ricerca: ogni volta è una variazione sul tema. Come sprigionare tutte le sfumature dello stesso prodotto? Quali accostamenti lo esaltano?
Quest'inverno credo di aver declinato i broccoli in tutti i modi possibili ed immaginabili. Quello c'era e con quello mi sono divertita da matti.
Detto questo, vi lascio alle mie frittatine di ieri, sperando di essere riuscita a trasmettervi un po' del mio entusiasmo.


Frittatine di barba mentolata

3 uova
barba di frate sbollentata
qualche foglia di menta (meglio mentuccia)
un goccio di latte
2 o 3 cucchiai di parmigiano grattugiato
sale e pepe

Weeee! Ma vi devo pure dare la ricetta della frittata?? Vabbè, come vedete ho fatto un esperimento monoporzione in forno, ungendo bene gli stampini e il risultato è stato più che soddisfacente.

mercoledì 14 maggio 2008

Il brunch del Four Seasons

Oggi si parla di ristoranti. E come sempre mi tocca passare la palla a Phil perchè, se non l'aveste ancora capito, IO sto a casa a cucinare mentre LUI si nutre in ogni dove (leggesi in questa frase tutta la cattiveria possibile ed immaginabile).
La recensione di oggi non può, per questioni economiche, rientrare nel bell'elenco stilato da Maricler e Fabrizio sui ristoranti milanesi dove si mangia entro i 50 euro, ma vale la pena di essere letta e presa in considerazione.
Dunque, Phil, è il tuo turno...

Qualche giorno fa, sfogliando ViviMilano, l’inserto locale del Corriere della Sera, mi sono imbattuto nella classifica dei migliori brunch milanesi redatta da Valerio M. Visentin, critico enogastronomico del quotidiano. Il miglior brunch della città è risultato quello del Four Seasons Hotel , uno dei più lussuosi alberghi meneghini. Poiché ho avuto occasione di testarlo non molto tempo fa, stuzzicato da un così importante tributo (a Milano ci sono infinite proposte di brunch domenicale, dunque essere i primi non è affato male), ho chiesto a Virginia il permesso di scrivere le righe che seguono.
Due parole sul termine «brunch». Come molti sanno, è la crasi di «breakfast», colazione, e «lunch», pranzo, e allude a un banchetto festivo con cui, nei Paesi anglosassoni, si celebra un pasto collettivo composto da alcuni elementi tipici della colazione (uova, marmellate, succhi di frutta, yogurt, cereali, torte) e altri propri del pranzo (salumi, carne, pesce, formaggi). I francesi, sciovinisti fino al midollo, lo chiamano «le grand petit déjeuner». I tedeschi, che pure hanno coniato «Gabelfrühstück» (credo, almeno), utilizzano anch’essi brunch, come noi italiani (che invece amiamo molto sentirci esotici). Il brunch ha una tradizione antica, risale infatti al XIX secolo, e a lungo è stato censurato dalle abitudini alimentari degli europei. Qualche anno fa, tuttavia, come è esplosa la moda del sushi, diffusasi soprattutto a Milano, così anche il brunch ha fatto il botto. Inizialmente veniva concepito, con maggiore rispetto etimologico, in american bar e locali un po’ fighetti, proprio come crasi di una colazione all’inglese e di un pranzo all’italiana. Dunque si «bruncheggiava» con uova, marmellate, yogurt, per poi passare a qualche piatto più sostanzioso, magari una pasta o della carne. Personalmente, educato alla netta distinzione dei momenti del giorno, un buffet in cui potevano convivere la marmellata di arancia amara e il vitello tonnato mi ha sempre fatto un po’ orrore. Ho infatti molto apprezzato la metamorfosi recente del concetto di brunch operata da alcuni grandi alberghi milanesi: non più un ambiguo incontro tra momenti della giornata, ma un pranzo vero e proprio, con nessuna o rara concessione allo yogurt prima dell’arrosto e, soprattutto, senza riempire immondi vassoi degli avanzi della settimana. Un pranzo di qualità, insomma, ma a buffet, protratto nel tempo, con anche la possibilità di sfogliare un quotidiano tra un boccone e l’altro. Relax, in una parola, e cibo di livello. Eccoci così giunti al Four Seasons e al brunch domenicale ideato da Sergio Mei, Executive Chef dell’hotel e alfiere della cucina italiana nel mondo (ha lavorato ovunque, dall’India agli Stati Uniti). Indubbiamente uno dei «grandi vecchi» della cucina «azzurra» (siamo già in clima Europei, qui).
Il brunch del Four Seasons l’ho testato, ospite di un grande appassionato del buon cibo, nel secondo ristorante dell’hotel (il primo è Il Teatro), che ha nome La Veranda, e si affaccia sullo splendido chiostro del Quindicesimo secolo intorno al quale si sviluppa la struttura dell’albergo (camere fino a ottomila euro a notte). Il pranzo è così concepito: la sala (un po’ pomposa, tipica da grande albergo barocco) è costellata da alcune isole del cibo, ognuna delle quali destinata a una tipologia di prodotto gastronomico. Ho saltato l’angolo pane&focacce, che propone anche muffins e croissant, unica concessione allo spirito autentico del brunch. La mia prima tappa è stata invece l’angolo del pesce, dove è possibile farsi preparare un piatto di sashimi all’italiana incantevole: tonno, salmone, ricciola e scampi erano di qualità inaudita, indiscutibilmente superiore a quella dei sushi restaurant milanesi, “big” inclusi. In accompagnamento, un intingolo a base acetata con olio, pepe e dadolata di cipolla rossa. Ho bissato il piatto, e l’avrei pure triplicato, data la qualità, ribadisco, grandiosa della materia prima. Successivamente, su consiglio di uno chef, ho testato salmone e ricciola marinati, non rimanendo affatto deluso, poiché la qualità era la medesima. Terminato il piatto, prima che potessi alzarmi e dirigermi verso un’altra meta, un cameriere ci ha portato un assaggio di uova sbattute ai bruscandoli, verdura che amo molto. Assaggio davvero eccellente. Così mi è venuta voglia di uova, e mi sono fatto preparare un classico uovo su crostino di pane, con spinaci e una grattata di tartufo (nero, ma compreso nel prezzo). Buono. Ancora una volta, prima che potessi alzarmi per proseguire il mio brunch, alcuni camerieri si sono avvicinati proponendo della crema di porri e patate, cui non ho potuto dire di no. Ottima, anche in virtù del filo d’olio Pianogrillo “Particella 34” e di una grattata di pepe di mulinello. Peccato abbia dovuto indicare al cameriere quale fosse, tra le quattro o cinque disponibili, la bottiglia del Pianogrillo: a così alti livelli, un olio tanto noto tra i gourmet dovrebbe essere altrettanto noto a chi serve in sala. Ma vabbé, non è certo un dramma.
Mi è così venuta voglia di testare la carne, dato l’aspetto sontuoso delle proposte. Un boccone di un arrosto di manzo cotto alla perfezione e accompagnato da una giardiniera di verdure (anonima) ha soddisfatto la mia voglia. A quel punto, prima di passare al capitolo dolci, che meriterà un’ampia descrizione con relativo applauso, il carrello dei formaggi. Ho scelto assaggi di: ricotta vaccina (buona), ricotta di pecora (molto buona), burrata con la sua “stracciatella” (stre-pi-to-sa, tra le due o tre migliori mai mangiate). Erano però a disposizione anche formaggi più corposi e stagionati, con relative mostarde. Dopo una improcrastinabile breve passeggiata nel chiostro, l’assalto alle due aree dolci. La prima, un angolo con alcuni mini dessert, nel complesso buoni, un paio notevoli, ma non memorabili. Ricordo: una discreta panna cotta con frutti di bosco, un buon tiramisu, un buon mini cannolo, un dolce al pistacchio (di cui non ricordo il sapore). La seconda, è la Stanza del Cioccolato, recentemente inaugurata e subito diventata celebre. Si tratta di un piccolo locale, un gustoso salottino in cui è quasi tutto realizzato con il cioccolato, quadri e pareti compresi. Luci soffuse, candele e un profumo inebriante accolgono il visitatore, come in un profanissimo santuario. Sono disponibili circa venti proposte di cioccolato, tutte realizzate dai pasticceri dell’hotel. Ho testato: una scaglia di cioccolato al fior di sale, un’altra al cioccolato fondente 90%, un bicchierino di mousse al cioccolato e rum, un mini bonet (davvero notevole), un assaggio di Sacher. Tutte porzioni volutamente microscopiche, che possono però essere bissate ad libitum, secondo lo stomaco e la decenza. Io mi sono fermato per mancanza di stomaco, non per decenza! In un’eventuale seconda visita, al fine di contenere i trigliceridi, darò nettamente la preferenza alla Chocolate Room rispetto al primo angolo dolciario, sicuramente più banale, per quanto comunque sfizioso.
Un discreto caffè ha concluso la mia esperienza al Four Seasons.

Veniamo al prezzo: 65€, bevande escluse. L’ho lasciato volutamente per ultimo, per una ragione che vi spiego immediatamente: sessantacinque euro per un brunch è una cifra folle, a mio avviso, ma non se questo è un trionfo di prodotti di primissima qualità, con i quali è possibile costruirsi un percorso che da un antipasto di pesce crudo e variazioni sulle uova, dopo un primo, un secondo, dei formaggi e dei dolci porta a concludere il proprio viaggio in una stanza ricolma di cioccolato. Questo non è, a rigore, un brunch, ma un pranzo vero e proprio, ed è su questo parametro che va misurato. In questo senso, e solo in questo senso, non è ingiustificato spendere sessantacinque euro per una simile proposta. Anzi, un pranzo simile in un ristorante di medio-alto livello sarebbe costato quasi il doppio (ma avrebbe ovviamente previsto più piatti “espressi”). Inoltre va detto che noi abbiamo chiesto di proseguire con il vino proposto come benvenuto – un ottimo spumante Ca’ del Bosco – e non ci è stato aggiunto nel conto finale, analogamente al caffè. Dimenticanza o signorilità? Il dubbio lo lascio volentieri al lettore.

Due note negative per concludere, affinché non si pensi che questa sia una mera marchetta! Entrambe concernono l’organizzazione. Ci siamo recati al Four Seasons intorno alle 14:30, su richiesta dell’hotel, dal momento che prima erano pieni (eh sì, c’è grossa crisi…). Nonostante l’arrivo puntuale, il tavolo non era pronto, e siamo stati invitati ad accomodarci in una polverosa sala conferenze affacciata sul chiostro. Siamo rimasti lì quasi un quarto d’ora, e nessuno ci ha portato né un calice di benvenuto né un bicchier d’acqua. La trovo una caduta piuttosto grave. Ugualmente, intorno alle 16, mentre noi e altri due tavoli non avevamo ancora terminato il pranzo, alcuni camerieri hanno iniziato a sbaraccare alcune “isole” non più frequentate, almeno a loro giudizio. Anche questa mi è sembrata una caduta piuttosto significativa, dato il livello della location e della proposta – soprattutto in relazione al fatto che il nostro arrivo tardo era ben noto, così come quello dei nostri vicini di tavolo. Peccato, perché il resto era stato pressoché perfetto, all’altezza di quello che fino a quel momento avevo giudicato il miglior brunch mai provato: quello del Gundel di Budapest*.

* Per chi andasse a Budapest, credo sia d’obbligo una visita in questo ristorante, elegantissimo, anche se «vecchio Impero», lontano anni luce dalla moda minimalista dei ristoranti occidentali: radica, tappeti, pianoforte a coda, livree, argenti e altre sfarzosità impreziosiscono – e appesantiscono – la bella sala principale di quello che è stato definito da molte guide come il miglior ristorante di Budapest e dell’Est Europa (addirittura, con un giudizio probabilmente eccessivo, «one of the ten best restaurants around the world» dal Sidney Morning Herald; mentre secondo una recente guida internazionale, uno dei primi cinquanta). Gundel propone un menu degustazione molto caro, soprattutto per gli standard ungheresi, poiché si aggira intorno ai centocinquanta euro (bevande incluse), ma la domenica è giorno di brunch (e a pranzo è disponibile un business lunch). Si tratta davvero di un ottimo brunch, anch’esso più simile a un pranzo che a una colazione, in cui è possibile degustare alcune specialità locali e prodotti di qualità ottima, accompagnati dal pianista. Si spende, se non ricordo male, circa quaranta euro, bevande escluse. Soldi davvero spesi molto bene, e la domenica non è nemmeno richiesta la giacca. Generalmente – ma questa informazione andrebbe verificata – il brunch domenicale è «a tema», nel senso che i piatti principali sono tutti realizzati con l’ingrediente celebrato quel giorno.


Four Seasons Hotel
via Gesù, 6/8
20121 Milano
Tel. 02/77088

martedì 13 maggio 2008

Pane ai semi di finocchio

Qualche giorno fa Adina ha proposto un buon pane con farina di segale e semi di finocchio...e mi ha fatto venire una voglia pazzesca di farlo (anche perchè ho ancora tantissima farina di segale da smaltire).
Inoltre era veramente da troppo tempo che il mio LM era in letargo, così ho pensato di modificare la sua ricetta in versione lievito naturale e di mettermi all'opera.
Sono molto soddisfatta dei miei panini. Forse ho leggermente ecceduto con la farina di segale (che ho aumentato rispetto alla ricetta originaria), ma a me piaceva così. Il mio fidanzato, invece, ha detto che il pane avrebbe anche potuto essere "più amabile"...
Ovviamente la mia risposta è stata: "Anche tu!*@!".
Insomma, se non amate troppo il gusto della segale, togliete 50g della suddetta farina e sostituitela con della farina normale.
Ce li siamo pappati -da veri crucchi- con speck e cetriolini.


Pane ai semi di finocchio

250g farina di Manitoba
70g farina 00
200g farina di segale
150g LM
250g acqua tiepida
½ cucchiaino di malto d’orzo
2 cucchiai di semi di finocchio (10g)
1 cucchiaino colmo di sale (per me di Guerande)

Sciogliere il LM nell’acqua e malto. Aggiungere a poco a poco tutte le farine setacciate, i semi di finocchio e, solo in ultimo, il sale.
Lavorare bene l’impasto e metterlo a lievitare per 3-4 ore in un luogo riparato.
Sgonfiare l’impasto e dare le forme al pane.
Rimettere il tutto a lievitare per altre 2-3 ore, ben coperto da un canovaccio umido.
Infornare a 200 gradi per 15 minuti circa (con la solita ciotola d’acqua sul fondo e, volendo, cospargendo il pane con farina di segale), abbassando la temperatura negli ultimi minuti.

domenica 11 maggio 2008

La torta di pane della mia mamma


Oggi, festa della mamma, ho la fortuna di poter pubblicare una delle sue ricette, che poi è anche una delle mie preferite.
Ho appena attaccato il telefono, l'avevo chiamata per farmi spiegare il procedimento, perchè voi non avete idea di quante volte io abbia provato a farla...ma non c'è niente da fare! Buona come la sua non mi verrà mai!
E' una delle torte più semplici sulla faccia della terra e credo che ogni famiglia abbia la propria ricetta...o meglio, il proprio occhio, perchè questa è una di quelle preparazioni che devi per forza fare ad occhio.
Dunque ora proverò a spiegarvi come la fa lei ma, vi avviso, buona come la sua non vi verrà mai...
Grazie mamma!


La torta di pane della mia mamma

pane vecchio fatto ammollare una notte nel latte
10-15 amaretti sbriciolati
uvetta ammollata nel marsala (e latte)
2 uova
1/2 bustina di lievito in polvere
qualche cucchiaio di zucchero
qualche fiocchetto di burro
burro e farina per la teglia

Unire al pane ammollato gli amaretti, lo zucchero, le uova leggermente sbattute, l'uvetta strizzata e infarinata e amalgamare bene.
Recuperare il marsala/latte nel quale avete messo a bagno l'uvetta e scioglietevi dentro il lievito. Versatelo nel resto del composto e amalgamate bene. Mettete il tutto nella teglia precedentemente imburrata e infarinata, mettete sulla superficie qualche fiocchetto di burro e cuocete a 180 gradi fino a doratura.
Guarnite con zucchero a velo.

venerdì 9 maggio 2008

"Sfillata" con asparagi, robiola ed erba cipollina


Se una torta di pasta sfoglia è una sfogliata, una torta con la fillo è una sfillata, no?
Sono in partenza per un week end mantovano, così ieri mi sono dedicata all'"operazione svuotafrigo".
E il risultato è stato questa gradevole torta salata, ottima per i cinque minuti a disposizione per la cena al volo di ieri.
Buon fine settimana a tutti!


Sfillata con asparagi, robiola ed erba cipollina

1 confezione di pasta fillo
1 confezione di asparagi (400-500g) da pulire
1 confezione di robiola
un po' di latte
10-15 steli di erba cipollina tagliuzzati
sale e pepe
olio per spennellare

Pulire gli asparagi, tagliarli a pezzetti e passarli in padella con un filo d'olio, sale, pepe e un dito d'acqua.
Nel frattempo, spennellare con dell'olio ogni foglio di fillo e sovrapporli uno ad uno.
Lavorare la robiola a crema con un goccio di latte, sale e pepe. Unirvi l'erba cipollina.
Spalmare la robiola "cipollata" sul fondo della pasta, aggiungervi sopra gli asparagi cotti e richiudere i quattro lembi della torta verso l'interno. Spennellare ancora con dell'olio e infornare a 180 gradi per 15 minuti circa.
Se possibile, a cinque minuti dalla fine, cercare di lasciare libero il fondo della torta, facendolo cuocere su una griglia (togliere dalla teglia).

giovedì 8 maggio 2008

Linguine con pomodorini alla vaniglia


Oggi un piatto semplicissimo (pasta e pomodoro), ma che mi fa impazzire.
Forse il procedimento è un po' lungo, ma ne vale decisamente la pena.
Partiamo dall'ingrediente più importante: il sale alla vaniglia*.
Per la ricetta mi sono attenuta fedelmente a quella di Kja proposta tempo fa su Soffi di sale, che prevede 2 stecche di vaniglia per 70g di fior di sale.
Una volta preparato questo (per tempo), il gioco è fatto.




Linguine con pomodorini alla vaniglia

per 2 persone:

160g di pasta (per me, linguine Garofalo)
500g pomodorini Pachino
olio evo
sale alla vaniglia q.b.
zucchero q.b.
cubebe (o altro pepe)
Parmigiano a piacere

Lavare e tagliare in 2 i pomodorini, disporli in una teglia e spolverare su ognuno (in ordine) un pizzico di zucchero, un pizzico di sale alla vaniglia, una macinata di cubebe e un giro d'olio.
Infornare a 150-160 gradi fino a cottura (ci vuole almeno mezz'ora).
Una volta pronti, travasarli in una padella con un goccio d'olio, cuocere la pasta e saltarla con i pomodorini. Aggiungere una spolverata di Parmigiano e servire.


* Come ben suggerisce Phil, il sale alla vaniglia, oltre ad essere particolarmente adatto per dolci e frolle, è molto piacevole sulle vellutate di verdura, aggiunto alla fine assieme ad un filo di olio buono.

mercoledì 7 maggio 2008

Il cappuccino destrutturato


Colgo l'occasione del quesito lanciato ieri da Sandra per mostrarvi il mio giochino preferito degli ultimi tempi. La fonte è la cara amica Paola, del forum de La cucina italiana. Da quando ne sono venuta a conoscenza, non me lo sono mai fatto mancare nelle mie colazioni. E' trooppo una figata, no? Alzi la mano chi di voi non si cimenta con la schiuma del latte!

Ebbene, siete sempre più curiosi, eh?

Ok, ok, vi svelo il trucchetto: per fare questo cappuccino degno di Adrià è sufficiente versare un po' di latte freddo nel bicchiere e con dell'altro (sempre freddo, che poi monta molto meglio), fare la schiuma coi propri mezzi di alta tecnologia. Poi, con un cucchiaio si raccoglie la schiuma (solo la schiuma!) e la si mette sopra al latte. Nel frattempo, si prepara un caffè e lo si versa pian piano sopra la schiuma, cercando di non sbrodolare troppo. Con un altro po' di schiuma si copre la macchia creata dal caffè ed il gioco è fatto.

Per un principio fisico a me ignoto (la differenza termica: il caldo sale?), il caffè non si mischia col latte sottostante, ma crea un strato a sè.

Provare per credere...

martedì 6 maggio 2008

Muffins con cioccolato, basilico e pepe di Sichuan


Eccomi di ritorno da un bel ponte di relax. Quello che ci voleva per rientrare con una macchina fotografica nuova (del papino) e impazzire per cercare di capire come si usa e come scaricare le foto. Abbiate pazienza...
Oggi sarò breve perchè ho una miriade di cose da fare, però vi lascio con questa buona ricettina, tratta dal solito libro di Guido Tommasi, che da queste parti abbiamo piuttosto gradito.
Grazie a tutti per i commenti lasciatimi in questi giorni di assenza.


Muffins con cioccolato, basilico e pepe di Sichuan

180g farina 00
3 uova
160g zucchero150g burro
100g cioccolato fondente 70%
50g latte
2 cucchiaini di cacao amaro
10-15 foglie di basilico fresco tagliuzzate
1/2 cucchiaino di pepe di Sichuan pestato
1/2 bustina di lievito per dolci
1/2 cucchiaino di bicarbonato
1 pizzico di sale

Sciogliere il cioccolato col burro.
Sbattere le uova con lo zucchero fino ad ottenere un composto bello spumoso. Aggiungere la farina setacciata col lievito, il cacao e il bicarbonato, poi il latte, il pepe, il sale e il basilico. Amalgamare il tutto con delicatezza.
Versare in uno stampo da muffin imburrato e infarinato e cuocere 15-20 minuti a 180 gradi.

Come dice la stessa autrice del libro, il pepe esalta l'intensità del cioccolato, mentre il basilico aggiunge un tocco di sapore davvero sorprendente.